Tanto ambita, tanto desiderata, tanto sognata fin dall’apertura del ristorante nel giugno 2018, e rivelata nell’esclusività di un evento irripetibile, lo svolgersi di un percorso enogastronomico studiato alla luce di un memorabilia, che ha enunciato la coralità delle sinergie che accentano la cifra stilistica dell’executive chef del ristorante [ b u : r ] a Milano, Eugenio il Magnifico, Eugenio Boer.
L’anima, la luce rivelatrice dell’anima di Eugenio Boer, il lirismo adamantino che trae infinita espressività nel dualismo delle indissolubili matrici, quella olandese e quella mediterranea, profondamente legata alla nostra Sicilia.
Una sensibilità magnetica e magmatica, il senso d’inedita meraviglia travolge ad ogni assaggio, negli idilli che orbitano attorno ad un ingrediente raro: la libertà.
Libertà dalle sovrastrutture che ingabbiano la cucina italiana contemporanea, libertà dagli abbinamenti codificati, libertà dallo svolgersi iconografico di ricette immutabili nella memoria collettiva ed audace stile travolgente, punteggiato di sublimazione tecnica ed esegesi magistrale dell’ospitalità, mediata da un servizio di sala brillante nel coinvolgere, espressivo nel divulgare la monumentale carta dei vini e puntuale nel ritmo di gestione del teatro del gusto.
Il ristorante [ b u : r ] a Milano è enclave di alta cucina d’avanguardia e di storia della letteratura enogastronomica cosmopolita, all’unisono, senza collisioni, attraverso orizzonti in divenire e rotte – come le incisive diagonali compositive dei dressage delle portate – che seguono le coordinate del talento dello Chef.
La fonetica come manifesto di sensorialità: due punti scarlatti, a perpetuare la lunghezza della sonorità di un respiro, da cui traspare tutta la dedizione introspettiva nei confronti degli ingredienti e l’attitudine esplicativa del desiderio di donarsi nell’epifania del gusto.
Sonorità tatilli, carezzevoli, eleganti, tantriche: sinestesie che coinvolgono le acidità zen, l’esperidata luce degli agrumi, la sapidità umeboshi e la iodica lussuria del caviale: il preludio delle suggestioni.
Il bianco e il nero di seppia, molto più che un omaggio a Gualtiero Marchesi, un microcosmo umorale che si spiralizza nei volumi, nella vertigine umami e nel dualismo passionale che sempre si palesa nelle composizioni.
Ostrica e terrina di maiale, l’Irlanda delle scogliere e del vento, di una tempesta carismatica di opulenza al palato, che si ricompone nel trascendentale ricordo del mare d’inverno e che appaga nella gloriosa antologia di strutture.
Cacciagione e frivolezza, dolcezze che ammiccano alle sceneggiature di Quentin Tarantino, trame cupe e suadenti di cuore e fegato di piccione, eclettiche e voluttuose che si placano nelle ombre di grué di fave di cacao, nell’esegesi dei miei venerati Macaron.
Toni di Viola si snoda tra rapa rossa, more e rombo, accentando con preziosi registri la vibrante texture del filetto di pesce, rimodulando il classicismo con ologrammi pulp ed armonie di sottobosco screziate di rugiada dolceagra.
Piccione, perle di foie gras, sedano rapa ed umeboshi, sartorialità e paradigma di contaminazioni auliche, evoluzioni di genialità e di sapere nell’impeccabile esecuzione e nei continui rimandi ad inedite allegorie.
Omaggio a Nino Bergese: a chiudere il menù il risotto che evoca l’autorevolezza della cucina e la consapevolezza dell’evoluzione, la suggestione ispirata al fondatore del primo ristorante che si sia mai differenziato dalle trattorie italiane, il cuoco dell’aristocrazia e il precursore del rigore tecnico, dello studio sperimentale e dell’ambizione alla raffinatezza. Sorprende per il lisergico bilanciamento agrumato, il risotto mantecato al timo ed ispessito di carisma dal fondo bruno.
Nello svelarsi della polifonia dei dessert, le proiezione dei percorsi più intimi della carriera di Eugenio Boer, istoriate di gioia compositiva e dinamismo.